La Corte Costituzionale torna a censurare atti delle Regioni che prevedano, a prescindere dallo strumenti utilizzato, calendari venatori di durata pluriennali e clamorose violazioni del principio della caccia di specializzazione
I nostri lettori ricorderanno come una decina di giorni fa ci siamo trovati a commentare su questa testata on line due sentenze della Corte Costituzionale, in cui il Giudice delle Leggi era tornato, in materia ambientale, con particolare riferimento alla caccia, ad enunciare principi peraltro assolutamente consolidati, secondo cui la disciplina sulla caccia ha per oggetto la fauna selvatica, che rappresenta «un bene ambientale di notevole rilievo, la cui tutela rientra nella materia "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema", affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, che deve provvedervi assicurando un livello di tutela, non "minimo", ma "adeguato e non riducibile"» (Corte Cost., sent. nn. 61/09, 193/ 2010, nn.105 e 106/12. Si veda anche, sul punto, Tar Lazio, ordinanza n.4908/10).
Sulla scia di quei due autorevoli pronunciamenti, la Corte Costituzionale, nella sentenza in rassegna, ha censurato la normativa regionale marchigiana in materia di caccia, che si poneva in contrasto con la legge quadro statale 11 febbraio 1992 n.157 sotto n duplice profilo.
In primis, il Giudice delle Leggi dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'articolo 26, comma 1, della LR Marche n. 15 del 2011, nella parte in cui - sostituendo l'articolo 30 della legge della Regione Marche n. 7 del 1995 - disponeva che il calendario venatorio regionale ha validità minima annuale e massima triennale, anziché prevederne unicamente la validità annuale.
Già nelle sentenze nn.20 e 105/12, che abbiamo diffusamente commentato sulle pagine di questa rivista, la Corte Costituzionale aveva avuto modo di significare come la disciplina generale sulle specie cacciabili e sui periodi di attività venatoria è contenuta nell'art. 18 della legge dell'11 febbraio 1992, n. 157, che garantisce «nel rispetto degli obblighi comunitari contenuti n. 79/409/CEE, standard minimi ed uniformi, di tutela della fauna sull'intero territorio nazionale, ha natura di norma fondamentale di riforma economico-sociale, in quanto implica il nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, il cui rispetto deve essere assicurato sull'intero territorio nazionale ... (sentenze n. 227 del 2003 e n. 536 del 2002)» (Corte Cost., n. 233 del 2010).
Da ciò consegue che le norme statali rappresentano limiti invalicabili per l'attività legislativa della Regione, dettando norme imperative che devono essere rispettate sull'intero territorio nazionale per primarie esigenze di tutela ambientale.
Ciò posto, si è ulteriormente osservato che il comma 2 dell'art. 18 della predetta legge n. 157 del 1992 prevede che le Regioni possano autorizzare modifiche alle norme generali sui periodi di attività venatoria per particolari specie, tenendo conto della propria situazione ambientale, a seguito di apposito procedimento che contempla l'acquisizione del parere dell'Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (nelle cui competenze è successivamente subentrato l'ISPRA in base al DL 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008). Il successivo comma 4 stabilisce che, sulla base dei parere dell'ISPRA, le Regioni pubblichino, entro il 15 giugno di ogni anno, termine che la Corte, nella pronuncia in rassegna, pare considerare perentorio, e non già ordinatorio, come a volte affermato, in passato, dalla giurisprudenza amministrativa, «il calendario regionale ed il regolamento relativi all'intera annata venatoria, nel rispetto di quanto stabilito dai commi 1, 2 e 3 ...».
Le norme primarie emanate dal Legislatore statale nell'ambito della sua competenza esclusiva in materia, sono pertanto chiare nel fare riferimento ad una attività regolamentare che deve essere adempiuta dalla Regione entro il termine del 15 giugno di ciascun anno, a seguito di uno specifico procedimento che contempla l'acquisizione di un parere obbligatorio dell'Istituto specificamente preposto alle verifiche tecniche finalizzate alla tutela degli interessi ambientali. Interessi che peraltro, nel corso degli anni, ben possono essere mutevoli, stante che la consistenza numerica e/o lo stato di conservazione delle singole specie interessate dal prelievo venatorio. Tanto è vero che i pareri resi dell'ISPRA risultano sovente mutevoli negli anni, anche in relazione alla medesima specie e/o realtà territoriale.
Non a caso, in numerose occasioni, allorquando sono stati chiamati a scrutinare taluni calendari venatori correttamente emanati dalle Regioni di volta in volta interessate con provvedimento amministrativo, i Giudici Amministrativi hanno avuto modo di chiarire che "i piani di prelievo devono essere predisposti per ciascuna stagione venatoria e i dati utilizzabili non possono che riferirsi alla presenza degli animali in un periodo prossimo alla stagione venatoria cui il piano di prelievo si riferisce". (TAR Piemonte - II - 15.11.06 n.584)
L'interpretazione letterale e logica delle citate disposizioni induce in primo luogo a ritenere (e la giurisprudenza sia amministrativa che di legittimità è consolidata in questa interpretazione della norma) che il parere debba essere richiesto in relazione ad ogni singoli piani di prelievo, con cadenza annuale, ed in secondo luogo che la legge statale abbia inteso riferirsi in via necessaria ed esclusiva ad una attività destinata a concludersi con un atto di natura amministrativa a contenuto generale, escludendo la possibilità di far ricorso al diverso strumento della legge, specie allorquando non si versi neppure nell'ipotesi della legge provvedimento, ma di una legge ordinaria, destinata a rimanere in vigore per un numero pressoché indefinito di anni.
Ciò è dimostrato, in primo luogo, dall'espressa dizione, contenuta nel comma 4 del citato art.18, che prevede esplicitamente l'obbligo di pubblicare «il calendario regionale ed il regolamento relativi all'intera annata venatoria». L'endiadi fa evidente riferimento ad un unico atto di natura regolamentare, contenente le specifiche norme applicabili nel territorio regionale nel periodo venatorio preso in considerazione.
Ad analoghe conclusioni conduce il carattere temporaneo (annuale) del provvedimento previsto dalla legge, che ben si concilia con l'adozione di un atto amministrativo riferibile ad un determinato arco temporale, da compiere entro un termine di scadenza definito, e che non sembra invece compatibile con un preteso obbligo di analogo genere a carico del legislatore regionale.
In ultima analisi, la natura amministrativa (e non legislativa) dell'attività provvedimentale di cui trattasi è dimostrata dal significato della disposizione del secondo comma, che prevede l'obbligo di acquisire il parere dell'Organo consultivo competente nella materia. E' evidente infatti che tale parere acquista rilevanza solo se si ritiene che la Regione sia tenuta ad esaminarne ed a valutarne il contenuto, giustificando con congrua motivazione il proprio eventuale dissenso attraverso un atto di natura amministrativa adottato nel rispetto dell'art. 3, primo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni.
Di contro, il parere sarebbe invece sostanzialmente inutile (e la norma che lo prevede sarebbe priva di effettivo valore precettivo), qualora si ritenesse che la Regione sia arbitra concludere il procedimento con un atto di natura legislativa, che oltretutto - per il disposto del secondo comma del citato art. 3 - si sottrae al predetto obbligo di motivazione. In sostanza, qualora fosse ipotizzabile l'adozione del calendario venatorio con legge regionale, anziché con provvedimento, amministrativo, risulterebbe pregiudicato l'esito della verifica tecnica affidata all'ISPRA sullo stato delle specie interessate, così come prescritto dall'art. 18, commi 2 e 4, della citata legge n. 157 del 1992.
Tale verifica si tradurrebbe quindi in una specie di non previsto (quanto inutile ed inefficace) controllo preventivo di legittimità della legge regionale da parte del competente Organo Tecnico dello Stato.
Questi principi direttivi risultano violati sia dalla Regione Marche che dalle altre Regioni, quali la Liguria, l'Abruzzo, la Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia ecc., che negli anni si sono determinate ad approvare i propri calendari venatori mediante provvedimento legislativo, anziché con atto amministrativo.
Queste Regioni, infatti, eludendo lo strumento procedimentale prescritto dalla legge statale, hanno sostanzialmente eluso i passaggi procedimentali inderogabili stabiliti dalla legge quadro, e che prevedono espressamente, come si accennava poc'anzi, che per ogni singolo piano di prelievo venga posta in essere un'istruttoria tecnica, che tenga conto, nell'interesse primario della tutela della fauna, delle condizioni ambientali e dello stato di conservazione delle singole specie.
Peraltro, nella sentenza in rassegna la Corte Costituzionale ha fatto ancora notare come il Legislatore marchigiano, non solo avesse illegittimamente attratto a sé la competenza provvedimentale, ciò che è in ogni caso precluso, ma si fosse spinto fino a irrigidire nella forma della legge il calendario per tre stagioni, indebolendone ulteriormente il "regime di flessibilità", che, come già ripetutamente rappresentato anche dalla giurisprudenza amministrativa, deve assicurarne un pronto adattamento alle sopravvenute diverse condizioni di fatto.
E' appena il caso di rammentare, sul punto, che il ricorso allo strumento legislativo serve anche a precludere ai cittadini ed alle loro organizzazioni rappresentative, la possibilità di tutelare i propri interessi legittimi innanzi al competente giudice amministrativo, mediante rituale impugnazione del calendario venatorio approvato.
Siamo di fatto di fronte ad una chiara ipotesi di eccesso di potere legislativo, in cui le Regioni sono andate a comprimere gli interessi di soggetti titolari di un diritto azionabile innanzi al Giudice Amministrativo ex artt. 24 e 113 Cost., in un contesto in cui, peraltro, accade di sovente che le Regioni varino leggi in contrasto con le previsioni della legge quadro, che, come detto, costituisce per tutte le Regioni, ivi comprese quelle a Statuto speciale, un limite invalicabile, derogabile unicamente in melius, vale a dire in senso più conservativo.
Proprio alla luce di tali principi, consolidatissimi e di cristallina chiarezza, nella sentenza in rassegna la Corte Costituzionale ha censurato anche la disposizione di cui all'articolo 22, comma 1, della legge della Regione Marche 18 luglio 2011, n. 15, recante «Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 1995, n. 7 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria)», che inserisce nell'articolo 27 della legge della Regione Marche n. 7 del 1995 i commi 5-bis e 5-ter, siccome in contrasto con quanto stabilito dall'art.12 comma 5 della legge quadro, e che prevedeva che prevede che i titolari di licenza di caccia ultrassantacinquenni, i quali avessero scelto di esercitare la caccia nelle «altre forme consentite dalla legge», di cui al comma 3, lettera c), dello stesso art. 27, potessero praticarla anche in quella prevista dalla lettera b), ossia da appostamento fisso (comma 5-bis), e che i cacciatori che avevano scelto la forma di caccia da appostamento fisso, potessero praticare anche «la caccia da appostamento temporaneo costituito da riparo artificiale mobile, inteso come telaio e copertura in tessuto» (comma 5-ter).
Quanto testè descritto ci pare di per sé sufficiente - come infatti ha riconosciuto il Giudice delle Leggi - a ritenere costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art.12 comma 5 della legge quadro, e, per gli effetti, dell'art.117 comma 2 lett.s) Cost. la norma varata dal Legislatore marchigiano, che si poneva in palmare contrasto col cd. il principio della caccia di specializzazione, in base al quale, fatta eccezione per l'esercizio venatorio con l'arco o con il falco, ciascun cacciatore può praticare la caccia in una sola delle tre forme ivi indicate («vagante in zona Alpi»; «da appostamento fisso»; «nelle altre forme» consentite dalla citata legge «e praticate sul restante territorio destinato all'attività venatoria programmata»).
Ne deriva, come puntualmente sottolineato dalla Corte, che tutti i cacciatori siano tenuti a scegliere, nell'ambito di tale ventaglio di alternative, la modalità di esercizio dell'attività venatoria, fermo restando che l'una forma esclude l'altra.
Tale criterio di esclusività ‒ che vale a favorire il radicamento del cacciatore in un territorio e, al tempo stesso, a sollecitarne l'attenzione per l'equilibrio faunistico ‒ trova la sua ratio giustificativa nella constatazione che un esercizio indiscriminato dell'attività venatoria, da parte dei soggetti abilitati, su tutto il territorio agro-silvo-pastorale e in tutte le forme consentite rischierebbe di mettere in crisi la consistenza delle popolazioni della fauna selvatica.
In quanto rivolta ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, la norma statale si inquadra, né potrebbe essere diversamente, nell'ambito materiale della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema: tutela riservata, come abbiamo scritto decine e decine di volte, alla potestà legislativa esclusiva statale dall'art. 117, comma 2 lett. s), Cost.
Detta disposizione, concorrendo alla definizione del nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, stabilisce, in particolare, una soglia uniforme di protezione da osservare su tutto il territorio ponendo, con ciò, una regola che, per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, può essere modificata dalle Regioni, nell'esercizio della loro potestà legislativa residuale in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell'innalzamento del livello di tutela (soluzione che comporta logicamente il rispetto dello standard minimo fissato dalla legge statale: ex plurimis, sentenze n. 106 del 2011, n. 315 e n. 193 del 2010, n. 61 del 2009), mentre deve di contro ritenersi illegittima qualsivoglia ipotesi di deroga in peius.
Ciò posto, la disposizione regionale impugnata dal Governo, nel consentire l'esercizio cumulativo di diverse forme di caccia - sebbene solo ad alcuni soggetti abilitati - deroga, per converso, alla disciplina statale nella direzione opposta, introducendo una regolamentazione della materia che implica una soglia inferiore di tutela.
Né, ha concluso, con persuasiva motivazione, la Corte Costituzionale nella sentenza che si annota, potrebbe essere condivisa la tesi difensiva della Regione Marche, in base alla quale la deroga in questione avrebbe una portata talmente limitata, essendo riservata solo a pochi soggetti, da non poter incidere in alcun modo sulla tutela dell'ambiente e, in particolare, sugli standard di protezione della fauna selvatica.
Di contro, ha obiettato la Corte, proprio il fatto che si discuta di una soglia minima e uniforme di protezione esclude in radice la praticabilità di scelte di minor rigore da parte della Regione, indipendentemente da ogni considerazione peraltro assolutamente opinabile, attinente al quantum dell'incidenza della deroga, in un contesto in cui è peraltro incontestabile che la possibilità di esercizio congiunto di più forme di caccia valga ad incrementare le potenzialità di procedere ad abbattimenti da parte della platea dei cacciatori.
Con l'augurio che, una buona volta, le Regioni abbiano capito....
su gentile concessione www.dirittoambiente.com
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